Mira la luna

ELOGIO DELLA LENTEZZA

“La velocità è la forma di estasi che la rivoluzione tecnologica ha regalato all’uomo. A differenza del motociclista, l’uomo che corre a piedi è sempre presente al proprio corpo, costretto com’è a pensare continuamente alle vesciche, all’affanno; quando corre avverte il proprio peso e la propria età, ed è più che mai consapevole di se stesso e del tempo della sua vita. Ma quando l’uomo delega il potere di produrre velocità a una macchina, allora tutto cambia: il suo corpo è fuori gioco, e la velocità a cui si abbandona è incorporea, immateriale – velocità pura, velocità in sé e per sé, velocità-estasi. Strano connubio: la fredda impersonalità della tecnica e il fuoco dell’estasi”.  

Questo è Milan Kundera, ne “La Lentezza”, Adelphi, 1995

Mi sono chiesto cosa mai avrebbe pensato Kundera del mondo d’oggi e in particolare della frenesia del cambiamento che ormai regola le nostre vite e i nostri piaceri con la velocità di una moto da corsa. Non dico la frenesia dei macro cambiamenti socio-economici che pure deflagrano nelle nostre vite, veloci e potenti come meteoriti; piuttosto, il cambiamento quotidiano che agisce subdolamente su di noi che viviamo in costante connessione coi il nostro smartphone. In media, ad ogni nuova informazione che appare sui nostri schermi dedichiamo circa 10/15 sec. Questo significa che, in un’ora il nostro cervello si espone a circa 360 nuove informazioni. Se a queste aggiungiamo le mail, le pec, i whatsapp, i telegram, i direct, e le chiamate, questo numero può facilmente raddoppiare. Così possiamo arrivare a processare 720 informazioni, in un’ora. 720 in 60 minuti. È una cifra mostruosa se si moltiplica per tutte le ore della nostra vita che mediamente trascorriamo al telefono, senza considerare computer e tablet. Tutte queste informazioni si trasformano in stimoli di cambiamento; infinite piccole bombe nucleari che scavano voragini nella nostra identità: piaceri irrefrenabili, paure incontenibili, insicurezze indicibili e desideri seducentissimi. È un microbiota che digerisce ogni nostra certezza, nutrendosi dei nostri sogni. Così, arriva prima o poi una mattina in cui, davanti ai nostri caffè, soffermandoci sul post di uno che comunica al mondo di aver mollato tutto e di aver deciso di vivere in camper facendo il giro del mondo, ci chiediamo: perché non lo sto facendo anch’io? E invece può succedere che non si riesca a farlo, per mancanza di soldi o di coraggio. E quel rimpianto diventa frustrazione e, in più di qualche caso, disagio esistenziale. La testa piena dei desideri degli altri, non lascia più spazio ai nostri. 

Chi vi scrive, si considera una persona entusiasta, spesso iperattiva e caotica e decisamente incline a nutrirmi di questa frenesia. Più di una volta, mi sono ritrovato spaesato, frustrato e pieno di dubbi. Più di una volta, è stata la lentezza, l’unico farmaco efficace contro questa lunga febbre di possibilità. La lentezza dell’uomo a piedi, di cui parla Kundera. Personalmente, infatti, non considero la lentezza come una rinuncia alla velocità, ma come una dimensione attiva dell’esistenza, una disciplinata attenzione allo scorrere del tempo. Le immagini quotidiane che si attivano nella mia mente quando penso alla lentezza, non sono immagini di noia, ma di fatica. La stessa fatica di un contadino o di un miniaturista medievale. La vita lenta è occupata da processi che richiedono tempi lunghi. Vi racconto i miei, che più di una volta, soprattutto in questi ultimi anni di grandi cambiamenti personali, mi hanno salvato la vita.

La lettura

Parto dall’attività forse a me più cara: la lettura, a mio parere, uno dei miglior esercizi di lentezza. La lettura è una terra della lentezza. La lettura richiede attenzione e sguardo d’insieme, ma regala il dono preziosissimo della moltiplicazione delle esperienze. “Chi non legge a 70 anni avrà vissuto una sola vita: chi legge avrà vissuto 5000 anni. C’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia e quando Leopardi ammirava l’infinito. Perché la lettura è un’immortalità all’indietro” diceva Umberto Eco. Non credo sia completamente vero, ma credo nel potere esperienziale dei racconti. È un potere antichissimo ed è sicuramente la prima rappresentazione dei grandi interrogativi della vita. La rappresentazione, a volte, è più potente della spiegazione, perché è più seducente. C’è un bellissimo verbo greco che evoca questo senso di seduzione. Si tratta del verbo θελγειν (“telghein”). Utilizzato spesso nell’Odissea letteralmente vuol dire “incantare”. È il verbo con il quale Circe annuncia ad Ulisse il canto ammaliante e distruttivo delle Sirene (OD. XII, v. 40). Le sirene condivido il sapere del racconto con le muse dei poemi omerici. Lo stesso verbo è utilizzato alla fine dell’Odissea per indicare il potere della verga di Hermes di guidare le anime dei pretendenti verso l’ade (OD, XXIV, 3). È un verbo misterioso, ambivalente e struggente, la cui sfera di significato è intrecciata con il filo dell’ambiguità che unisce la vita alla morte, il piacere al dolore. Il canto epico, racconto di tutti i racconti, prima testimonianza letteraria degli uomini, è come il canto delle sirene, ti attira fino a soffocarti, ti uccide per regalarti l’eternità. Io credo che la lettura, la buona lettura, sia ancora figlia di questo canto antico di 4000 mila anni fa. 

L’osservazione della natura

La lentezza, per me è legata, inoltre, all’osservazione della natura. Sembra anacronistico e forse lo è davvero. Ho la fortuna di avere in casa un cortile con un’aiuola nella quale abbiamo piantato un limone e un mandarino. Ogni mattina rimango per qualche minuto a guardare quei giovani alberi, cercando di scovare il lento miracolo della loro crescita. E la maggior parte delle mattine mi scontro con il niente. Ogni giorni li annaffio, ogni mese li concimo, rimango vigile sulla presenza di fumaggine sul dorso delle foglie. Eppure, per giorni e giorni mi scontro con il niente: quegli alberi se ne stanno lì, uguali a se stessi, immobili, quasi inerti al cambiamento. Poi una mattina, noto un intero rametto pieno di foglie più verdi delle altre, un piccolo fiore bianco o un minuscolo bulbo verde come un limone che pende sotto le foglie. Quella piccola scoperta, quando capita, mi regala una misteriosa gioia del tempo che produce frutti. È la contezza di essere fatti tutti di noia ed orgasmo, nuvole di ore apparentemente inutili, che, solo dopo giorni, scopri essere dense della pioggia dell’attesa, che nutre il terreno di pazienza. E forse intuisci che la vita, non è solo bellezza estatica e lotta alla supremazia, ma è anche strutturazione di radici e anonimo cammino quotidiano. 

A volte regalarsi un albero in giardino o una pianta di pomodoro in casa fa bene all’anima più che una passeggiata in un bosco. Spesso releghiamo la natura al locus amoenus della domenica, all’evasione organizzata dal tram tram quotidiano, dimentichi che i cicli di vita non sono lontani da noi. Condividiamo con gli alberi più di quanto pensiamo: la vita e la morte, la ricerca del sole, l’attesa del frutto e la noia delle ore. C’è un racconto di una leggenda cinese, citata da Italo Calvino in “Lezioni americane” (Mondadori, 2012) che rappresenta bene il senso della lentezza. 

“Tra le molte virtù di Chuang-Tzu c’era l’abilità nel disegno. Il re gli chiese il disegno d’un granchio. Chuang-Tzu disse che aveva bisogno di cinque anni di tempo e d’una villa con dodici servitori. Dono cinque anni il disegno non era ancora cominciato. “ho bisogno di altri cinque anni” disse Chuang-Tzu. Il re glieli accordò. Allo scadere dei dieci annic Chuang-Tzu prese il pennello e in un istante, con un solo gesto disegno un granchio, il più perfetto granchio che si fosse mai visto”. 

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