Papà cielo stellato

DIVENTARE PADRE

Il 21 settembre di quest’anno sono diventato padre e da allora non faccio più gli stessi sogni. Le notti precedenti erano state notti troppo brevi e livide per sognare.

Il pavimento della sala d’attesa del reparto di ostetricia di Lecce è di inoleum bianco. Gli angoli del pavimento sono pieni di segni di bruciatura di sigaretta, archeologia del periodo in cui si poteva fumare nei locali pubblici: migliaia di nuvole d’ansia sono state spente su quel inoleum, con la punta di una scarpa. E una bestemmia.

Ho seguito il travaglio di Maura da vicino per tutto il tempo che mi è stato concesso. Il suo corpo piccolo e morbido ha vibrato come la cima di una vela in tensione, sferzata da un uragano, che non aveva intenzione di passare via senza spezzare qualcosa. Nel bagno della sua stanza non c’erano né la carta igienica, né la doccia. L’unica cosa che avevo imparato dal corso pre-parto è che una doccia calda avrebbe potuto aiutare. L’infermiera ci ha concesso di usare quella del bagno di servizio del reparto. C’era un’unica sedia nel bagno ed era di metallo. L’ho posizionata sotto l’acqua della doccia per tentare di riscaldarla, mentre lei si spogliava nei ritagli di quel dolore che l’accoltellava. Siamo stati lì un’ora, ma mi è sembrato un anno luce. Lei gridava, soffiava e tremava ed io ho fatto i conti con l’impotenza di essere maschio. Poi mi hanno fatto uscire. È arrivato l’anestesista per farle l’epidurale e dopo due ore mi hanno fatto rientrare, direttamente in sala parto. L’ostetrica mi ha fatto indossare una cerata verde e mi ha legato ai piedi delle cuffie a mo’ di calzari, perché i calzari erano finiti. Così bardato, mi ha condotto da Maura. L’ho trovata stesa su un lettino in una stanza in penombra. Aveva freddo. Sibilava. Quella vita nuova si faceva strada nelle sue viscere come una talpa. Non so dire bene quanto tempo abbiamo passato in quel limbo. L’ostetrica le indicava dei movimenti da fare con le gambe e il bacino. A vederli, risultavano faticosi a me che ero tutto intero, Maura li ha dovuti fare con un catetere nella spina dorsale e la testa di un essere umano che premeva nella sua vagina. Aveva fame, le ho dato un pacchetto di Ritz che ha mangiato con voracità. Forse mio figlio è nato con un pacchetto di Ritz. A dilatazione completa, ci siamo finalmente spostati in sala parto. Maura è salita a fatica su un lettino duro che assomiglia ad una macchina di tortura medievale. Io mi sono messo dietro di lei per tenerle la testa e gridarle all’orecchio tutta la mia ammirazione e il mio sostegno. Forse mi voleva mandare a fanculo, ma non l’ha fatto. Dopo circa un’ora di dolori e spinte aldilà delle sue gambe si era formato un nuvolo di medici e ostetriche, tutte donne, tutte abituate a quell’atroce felicità, concentrate sul portare a termine quel momento decisivo. Le catenine d’oro che Maura porta sempre legate al collo le stavano dando fastidio, gliele ho staccate e le ho messe nella tasca dei pantaloni. “Non perdere i ciondoli” mi ha detto, inspiegabilmente lucida. Poi, dopo un’altra spinta, ecco la testa. In pochi secondi spuntano il torace e le braccia e infine le gambe e i piedini. Dai suoi polmoni pieni d’acqua si fa strada un pianto che forse proviene dal mondo di prima, il mondo dei sogni, dell’amore, delle idee. In quel pianto ho sentito una polvere sotto la lingua, la polvere di cui è fatto l’universo. Il tempo si è fermato. Quel corpo, che prima di essere concepito esisteva nel vuoto della galassia, così piccolo e unto, è la prova vivente dell’eternità. Forse Montale è riuscito ad avvicinarsi alla descrizione di cosa era quel pianto: il guizzo di una anguilla, quella “scintilla che dice tutto comincia quando tutto pare incarbonirsi, bronco seppellito” [da L’anguilla, ne’ “La bufera ed altro“].

Lorenzo, così si chiama mio figlio, è stato adagiato dall’ostetrica sul seno di Maura e coperto con degli asciugamani. In quel momento mi si sono tappate le orecchie, come se tutto il mio corpo avesse deciso di isolarsi per ascoltare il suo pianto. Mi sono dimenticato di piangere anche io perché volevo vederlo bene. Non volevo che le pupille mi si riempissero di altro. Così mi sono trattenuto. Aveva la pelle bagnata e rugosa e lo sguardo antico dei vecchi che salutano un mondo per entrare in un altro. Si è accucciolato sul seno di Maura e un nuvolo di farfalle gialle mi è frullato nel cuore. Diventare padre ti fa conoscere con violenza un amore a cui non sei preparato. Non c’è relazione, non c’è conoscenza, non c’è affinità. È un amore di potenza che si fa atto, è un prato fiorito in primavera, che si ritrova lì una mattina e il giorno prima era tutto secco. In attesa che ricucissero Maura, sono uscito con i dottori per presentare il bambino ai miei e ai suoi. È stato come il finale di otto e mezzo di Fellini. Aperta la tenda bianca, un caravanserraglio di facce buffe, una processione di nonni che ricevono l’ostia di una vita nuova. Commozione e prateria di spazi e silenzi che nessuno riusciva a colmare, oltre al brusio di fondo fatto di complimenti, stupore e pianti.

Da quella sera, dicevo, non ho fatto più li stessi sogni. È cambiato il tempo del vivere. Tornati a casa, abbiamo iniziato a tenere il conto dei giorni in base ai suoi pianti, alle sue ore di sonno e alle sue poppate. Per tutta la casa inizia ad aleggiare un odore acre di latte rancido, il primo odore della sua cacca che non ha conosciuto il cibo degli uomini, ma solo quello della mamma. C’è un viavai di parenti e amici, tutti felici e curiosi di vedere il nuovo arrivato, tutti ligi nel fare i loro commenti su come si gestisce l’arrivo, su quello che è importante fare, su quello che non bisogna sbagliare. È faticoso, a volte persino alienante. Poi, verso sera, quando rimaniamo soli nel letto o all’alba quando la luce del giorno ci sorprende oltre i tetti dei palazzi vicini, Lorenzo mi sorride. È un sorriso anodino, rapito dall’ombra della sua ingenuità, che mi restituisce il senso del suo esserci. Come se in quel sorriso ci fosse la Resurrezione di Cristo.

L’allattamento è un momento sacro e prezioso, sul quale ho provato a vegliare come una sentinella sulle mura di Troia. Io sono un soldato senza nome, Maura è Andromaca, ricchi doni, che nutre nostro figlio con i suoi anticorpi, la sua pazienza e la sua fragilità.

Essere padre è un percorso che dura tutta la vita, un mestiere che non si impara mai. Non è semplice spiegare perché è successo. È successo e basta. Forse volevo diventare genitore per ricordarmi che dovrò morire e voglio fare la mia parte. Sembrerebbe un atto di egoismo di chi si è arreso al sistema e, almeno una cosa sua l’ha messa al mondo, ma in realtà vivere quest’esperienza è un atto di decentramento. Fare un figlio è una presa di coscienza del fatto che la vita è una catena e tu sei solo un anello. Ed è bellissimo non sentirsi più al centro di se stessi, ma al centro della vita di qualcun altro. Non durerà a lungo e spero con tutto il cuore di non asfissiare la sua ricerca di mondo con preoccupazione o tracotanza. Come ho già detto, anche se sono all’inizio, mi sono reso conto che è difficile fare il padre. Quando ho avuto la notizia, sono nate in me le piante di tanti sentimenti diversi, ma, tra tutte, quella più veloce a crescere è stata la pianta della curiosità. Ero curioso di sapere che occhi avrebbe avuto Lorenzo, come avrebbe camminato, che personalità lo avrebbe contraddistinto. E, ora che posso stringerlo tra le mie braccia, ora che lo vedo crescere ogni giorno con una rapidità che mi sconvolge, quella curiosità è esplosa in un desiderio di esplorazione. Voglio vedere come proseguirà la sua storia, quale sarà la sua prima parola, il suo primo pensiero creativo. Sono curioso di sapere come reagirà all’autorità delle leggi umane e di quelle della natura. Proverò a mettermi in ascolto del suo cuore e proverò ad offrirgli sempre punti di vista nuovi. Cercherò di non contraddire sua madre davanti a lui, anche se non sarò sempre d’accordo con quello che dirà. La bacerò, perché voglio fargli capire che lui è il frutto vero del nostro amore. Mi faccio tante promesse che non manterrò -non credo tutte- o che forse non proverò neanche a mantenere perché sarò pigro o distratto. Quello che sicuramente so, ogni giorno che passa, è che mi sorprenderò della realtà, vedendola semplicemente riflessa negli occhi verdi e grandi di mio figlio. Quando la sera rimaniamo io e lui nel letto per qualche minuto soli, provo a dirgli che gli voglio bene e lui, a volte, smette di nuotare con quelle sue gambette allegre, mi guarda e dentro quegli occhi da infante, mi sembra di scorgere un uomo.

È questo il mio nuovo modo di vedere: attraverso i suoi occhi.

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